A DESTRA SERVE UN DIBATTITO SERIO SUL PROBLEMA IMMIGRAZIONE

Da giorni stiamo assistendo a uno scontro a bassa intensità a destra sul tema della gestione dei flussi migratori in seguito al caos Lampedusa. Comprensibilmente l’elettorato di destra è esasperato dall’immagine di tutti questi sbarchi, aumentati negli ultimi mesi, è reclama misure rapide e drastiche. Un’insofferenza sulla quale ha iniziato comprensibilmente a soffiare la Lega per recuperare il consenso perduto a vantaggio di Fratelli d’Italia in vista delle elezioni europee del prossimo anno.

Diatribe elettorali che stanno facendo perdere di vista le giuste considerazioni da fare su questa crisi migratoria, abbassando il livello della riflessione politica e facendo il gioco della sinistra.

Il Governo Meloni è attaccato perché, si dice, dopo aver promesso blocchi navali ecc. non sta mostrando abbastanza il pugno duro sull’immigrazione. Una narrazione alimentata appunto anche da alcuni nella maggioranza, come dimostrano le dichiarazioni del vicesegretario della Lega Crippa che ha definito fallimentare finora la politica migratoria e l’azione diplomatica in Tunisia del Governo. Facendo subito andare il pensiero alle immagini della navi Ong bloccate per giorni fuori dai porti italiani dall’allora ministro Salvini il quale fu anche protagonista dei famosi decreti sicurezza che oggi vengono invocati.

Decreti che però sono stati poi dichiarati parzialmente incostituzionali dalla giustizia italiana, cosa che li ha resi putroppo non replicabili come sa bene l’attuale ministro dell’interno Piantedosi che non soltanto è ministro in quota Lega ma fu anche il capo di gabinetto del Salvini ministro e dunque autore materiale di quei decreti. 

Ma c’è un punto ancora più importante. Perché quando Salvini si insediò come ministro dell’interno i numeri dei flussi migratori erano molto diversi, molto inferiori, rispetto a quelli che si è trovato ad affrontare il Governo Meloni. Il Governo Conte I giura a giugno 2018 quando gli sbarchi si erano placati da ormai quasi un anno. A placarli erano state le misure messe in campo dall’allora ministro Minniti che operò principalmente du due fronti: da un lato con il codice di condotta per le Ong per impedire che agissero da pull factor incentivando i trafficanti a mettere i migranti sui barconi; dall’altro siglando accordi di cooperazione con i paesi dai quali questi barconi partivano, Libia su tutti. I decreti sicurezza di Salvini aggiusero un ulteriore pezzo alle politiche dissuasive ma entrarono in vigore solo a fine 2018, quando già eravamo da oltre un anno stabilmente sotto i 5mila sbarchi mensili (contro i 15/20/25mila mensili del 2016/2017), e sono rimasti in vigore fino a fine 2020 quando però paradossalmente – dopo uno stop favorito anche dalla prima ondata Covid – avevano già ricominciando a salire, tornando man mano a raggiungere le dimensioni enormi della crisi del 2014/2016 e prospettandosi ancora più imponenti nei prossimi anni.

Perchè?

Innanzittuto c’è la questione demografica. L’Africa è un continente in fase di esplosione demografica ma senza i mezzi (cioè un benessere sociale ed economico) in grado di sostenere un tale boom. Se si pensa che tra due anni la sola Nigeria sarà più popolosa di tutta l’UE messa insieme, si capisce bene la portata del problema. Questa nuova popolazione, che sarà tutta giovane e tutta in cerca di benessere, vorrà riversarsi naturalmente in Europa e soprattutto in Italia in primis per evidenti ragioni di vicinanza geografica e poi perché l’Occidente è visto ancora come uno scrigno di ricchezza e opportunità. Narrazione favorita dall’azione in loco di trafficanti e anche di molte Ong che promuovono questa visione per incitare alle partenze (che come tutti sappiamo avvengono dietro pagamento di somme per loro enormi). Ecco perché la battaglia per regolamentare e limitare l’azione delle Ong, proprio sulla stregua del “codice Minniti” è sacrosanta. Ma non basta.

Così come non basta tenere le barche ferme a largo delle nostre coste impedendo loro di sbarcare. Una volta che queste barche sono in mare, anche se in acque internazionali o peggio ancora vicino alle nostre coste, il danno è già fatto perché qualsiasi iniziativa del governo è vincolata al rispetto dei trattati internazionali. Ma anche se non li si volesse rispettare, attuare come Italia un blocco navale con un numero di sbarchi di questa portata significherebbe dover impiegare tutta la nostra Guardia Costiera/Marina in questa operazione che probabilmente provocherebbe il dirottamento di queste barche verso altri paesi europei, provocando scontri diplomatici (vedi caso Ocean Viking) e, nel caso in cui quei paesi decidessero di farli sbarcare, ritrovandoci comunque i migranti in suolo europeo e dunque – in virtù della libertà di circolazione dentro l’area Schengen – anche in Italia. Ecco perché il blocco navale va fatto attraverso un’operazione militare congiunta con gli altri stati europei, almeno quelli che si affacciano sul Mediterraneo.

Anche perché un blocco navale da solo potrebbe farci incorrere anche in un altro rischio: lo scontro militare con i paesi della sponda sud del Mediterraneo. Immaginatevi ad esempio come potrebbero reagire paesi come Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto e finanche la Libia (con la quale già abbiamo scontri armati per via della pesca) di fronte allo schieramento di armate a largo delle loro coste. Soprattutto dopo che per anni abbiamo rinunciato come Europa a ogni iniziativa geopolitica in Africa lasciando che questi paesi finissero spesso sotto l’influenza di altre potenze come Cina, Russia e Turchia che pian piano hanno messo mano non solo alle risorse naturali africane ma anche alle loro istituzioni, forze armate e rotte migratorie, queste ultime usate come arma per metterci sotto pressione e avere un rapporto di forza sui tavoli negoziali (vedasi i barconi di migranti inviati in Italia dal generale Haftar appena si è insediato il Governo Meloni). Tanto più ora che la crisi ucraina ha posto l’Occidente in netta contrapposizione con queste potenze, facendo sì che lo stesso Mediterraneo diventi un terreno di scontro appendice di quello ucraino (vedasi battaglia del grano) e facendoci di colpo scoprire come l’Africa si sia nel frattempo allontanata da noi per avvicinarsi a loro (vedasi le posizioni espresse dai paesi africani in sede Onu sulla guerra in Ucraina).

La via diplomatica con i paesi africani dunque è la priorità se vogliamo arrivare a soluzioni efficaci e strutturali per affrontare la crisi migratoria. Certo è una strada lunga e complicata visti i tanti e gravi errori fatti da Europa e Occidente in Africa in questi anni. E visto che nel mentre la macchia della destabilizzazione dell’Africa si è allargata, estendendosi dal Nord Africa per colpire prima il Sahel e ora addirittura l’Africa centrale. Una bomba atomica inesistente all’epoca di Salvini e alle quali si sono aggiunte nelle ultime settimane anche le calamità naturali in Marocco e Libia.

Una via diplomatica che non a caso è boicottata in tutti i modi dalla sinistra, a partire dal memorandum della Tunisia che ancor prima di diventare operativo (motivo per il quale non si vedono ancora gli effetti… Perché ancora non è partito) è stato sabotato dai partiti di sinistra a Bruxelles i quali vogliono che gli accordi di cooperazione sull’immigrazione con i paesi africani siano vincolate al rispetto di diritti vari attraverso la richiesta di riforme e progetti che vanno dal modificare i processi istituzionali a obiettivi green e lgbt. E’ un modo ovviamente per far sì che nessun accordo possa essere concluso poiché è evidente che difficilmente i paesi africani vorranno aderire in cambio di soldi a un’agenda ideologica progressista di stampo occidentale che nulla a che vedere con la loro cultura. Motivo per il quale ci siamo in Africa l’Europa si è fatta surclassare dalle altre potenze che arrivavano con contanti nelle borse o con forze armate o con progetti infrastrutturali già pronti per essere regalati ai territori mentre noi proponevamo a popoli che fanno la fame accordi di cooperazione grotteschi ispirati a Greta Thungberg o ad Alessandro Zan. Dunque attaccare la strategia diplomatica della Meloni in Tunisia significa contribuire alla strategia di affossamento della sinistra.

Né può l’Italia pensare di svolgere questo ruolo di influenza in Africa da sola non essendo certo dotati della forza militare o economica per fare concorrenza a Cina, Turchia e Russia le quali stanno già cacciando la Francia che ha più risorse di noi. Motivo per il quale serve comunque una risposta europea ma basata su un nuovo approccio all’Africa, rispettoso della loro cultura e delle loro necessità. Insomma, una sorta di Piano Mattei. Una missione geopolitica alla testa della quale oggi probabilmente può esserci solo l’Italia che non ha un passato coloniale oggetto di revanscismi (vedasi Francia e Algeria) e ha un’identità profondamente mediterranea, per fortuna meno intaccata dai deliri woke rispetto ad altre nazioni europee, che favorisce il dialogo con questi paesi. 

Tutto ciò però costituisce un lavoro che richiede visione, lungimiranza, serietà e soprattutto tempo. Ecco perché ostacolarlo con divisioni interne produce come solo effetto sprecare l’occasione di essere al governo per costruire qualcosa di solido e cadere nella trappola della sinistra la quale non vede l’ora che raffiorino divisioni che mandino in crisi il governo, facendoli tornare al governo nell’unico modo che riesce loro e smantellare in due secondi ogni tentativo di politica migratoria restrittiva. Proprio come nel 2019.

Dunque usare Le Pen per mettere in difficoltà Meloni non è una buona idea. O meglio lo è solo se si vuol fare un favore alla Schlein.